So che posso sembrare noioso e tedioso perché scrivo, quasi sempre, dello stesso argomento cioè i pazienti affetti da ALGODISTROFIA, ma da sempre essi rappresentano per me un campione di pazienti molto speciali.
Essi, per la loro condizione, patiscono un dolore che la IASP (International AssociatIon for the Study of Pain) descrive come uno dei maggiori dolori che un essere umano possa sopportare.
Ma, incredibilmente, dopo quasi 30 anni di lavoro con loro (applicando con successo il mio metodo NEURORESET©®) ho potuto verificare che la cosa che più spaventa e fa soffrire questi pazienti non è il dolore bensì la solitudine!
La solitudine che vivono in famiglia, nella quale essi vengono etichettati come “esagerati” o “insofferenti”.
La solitudine che essi toccano con mano durante le infinite visite medico-specialistiche che parlano, con termini astrusi, di cosa possa avere causato questa condizione (io non la considero una patologia), di quante iniezioni dovrà sopportare il paziente e di quanto dolore il paziente dovrà affrontare durante la riabilitazione. Ma, durante queste visite, l’unica cosa che manca, purtroppo, è l’empatia del terapeuta verso il paziente che viene trattato con sufficienza e malcelata insofferenza. Questo perché è molto semplice ed istintivo provare empatia ed immedesimarsi in un paziente che presenta un danno “visibile” come una ferita o una frattura. Diventa, invece, molto più difficile provare gli stessi sentimenti verso un paziente che urla e si lamenta senza un motivo apparente.
Per questo ho intitolato “Il fuoco dell’anima” il manuale dedicato ai pazienti algodistrofici, perché a soffrire più di tutto non è il corpo.
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