PERCHE' MI DEDICO COSI' TANTO A QUESTA PATOLOGIA?
Fondamentalmente perché è ignorata dalla gran parte dei terapeuti.
Perché ai loro occhi il paziente affetto da algodistrofia è un paziente che dà fastidio, che si lamenta sempre, che non vede luce in fondo al tunnel nel quale si è, suo malgrado, ritrovato.
Ma è corretto dire "suo malgrado"? Questo è un punto che affronteremo in seguito.
Purtroppo, riguardo la terapia delle algodistrofie, troverete che viene usato di tutto ed il contrario di tutto.
La terapia di questa patologia riporta in letteratura un infinità di rimedi e di soluzioni.
Alcune condivisibili per la ricerca onesta e impegnata che ne ha guidato l’iter di studio, ma altre sono in tutta franchezza difficilmente comprensibili se non alla luce del puro e semplice business finchè c’è la mucca (cioè il paziente) da mungere.
La verità è che spesso non è corretto il presupposto che sta alla base del progetto terapeutico.
Spesso non ci si chiede: perché il corpo del paziente si sta comportando così?
A volte dopo un urto banale o dopo un gesso o un’immobilizzazione la parte interessata non sembra più appartenerci, non sembra fare più parte di noi.
Quella mano, quel polso è diventato ribelle, refrattario ad ogni trattamento e più cerchiamo di aiutarlo e più la situazione precipita fino ad arrivare ingestibile.
Perché tutto questo?
Le spiegazioni che troverete in letteratura sono molteplici e tutte, sostanzialmente, condivisibili.
Io, da molti anni mi occupo di questa particolare patologia ed ho cercato sempre di capire in quale stato psichico si trovava il paziente nell’attimo esatto in cui subiva il trauma
Tutto sta in questo momens originario!
Cosa pensava un attimo prima del trauma?
Che tipo di sensazione ricorda mentre la ingessavano?
Cosa ha provato poco prima di entrare in sala operatoria?
Provate a rivolgere queste banali domande a chi soffre di algodistrofia. Sembrano banali solo a chi le fa ma non a chi risponde. Io le ho fatte e nessun paziente ha ritenuto tali domande stupide o fuori luogo. Ed ho notato che tutti i miei pazienti avevano in comune un vissuto di ansia, di angoscia o letteralmente di paura non necessariamente legato all’evento traumatizzante.
Ma era come se lo stato psichico di quell’attimo fosse rimasto “bloccato” nel segmento anatomico traumatizzato; in quel polso, in quella caviglia o in quella mano.
E’ interessante al riguardo leggere Il trauma e la mente di John Upledger, medico ed osteopata americano.